in ogni lettore multimediale o telefono o apparecchio che possa riprodurre musica io tengo sempre una copia di “io, tu, noi tutti”. Le tengo sempre con me perché ho sempre paura di poterti dimenticare, di sentirmi in colpa perché magari per due giorni non ti ho pensata, come quando rifletto sul fatto che non sento babbo da più di qualche giorno. la tengo sempre con me per sentire sopratutto “questione di cellule”. è la prima che ascolto ogni volta che metto su questo disco. è quella che mi fa piangere di più quando ti ricordo. perché comincia con “probabilmente mio papà, insieme a mia mamma, chi lo sa, desideravano non me ma un altro bambino”. forse inconsciamente penso avrebbero voluto un figlio diverso, qualcuno più importante, più realizzato, con una vita più stabile, senza questo continuo vorticare nel cervello. Qui parte di solito la mia auto-analisi in cui in reale giudico me stesso e dall’altra parte non c’è nessuno a criticarmi. Come dice il mio amico Tony, questo procedimento (forse più propriamente “processo”), vede sempre e soltanto una persona nel ruolo del giudice ed una sola persona nel ruolo della giuria e sempre la stessa persona nel ruolo dell’imputato. Sempre e soltanto me stesso, in tutte e tre le parti, prontissimo a demolirmi. E la cosa ancora più stressante è il non sapere come venire fuori da questo meccanismo. E sempre forte ritorna il ricordo di mia madre, che immagino in piedi per casa, sola, che mette questo disco con le sue mani un po’ incerte. Sempre dubbiosa delle sue possibilità mia madre. Ed il disco che risuona in casa, mentre mio babbo è a lavoro ed i miei fratelli a scuola, e lei che si accarezza la pancia mentre aspetta questo bambino che 36 anni dopo le avrebbe baciato la fronte fredda, nella sua bara. Ed ogni dannata volta mi viene da piangere.